Life/Livework
Lucidità, intensità di percezione, pronta reazione di fronte alle situazioni: in teatro, sul lavoro, nella vita.
Life (live) work è un'attività antistress che coinvolge la mente e il corpo, e grazie alla musica, alla voce e al movimento, punta a incrementare la capacità personale di "vedere" la realtà, senza lasciarsi influenzare dall'emotività, dallo stato d'animo per riuscire a riportare tutto alle sue reali dimensioni.
Serve al danzatore per aumentare la sua presenza scenica, per essere pronto a reagire a imprevisti o difficoltà.
Serve al professionista per capire le situazioni lavorative e le relazioni aziendali.
Serve a ognuno di noi per "smontare" gli eccessi emotivi e trasformare le difficoltà della vita in occasioni di evoluzione e crescita.
Training riabilitativo Life/Livework
SI CHIAMA: Life(live)work
OBIETTIVI:
recuperare traumi fisici (post-operatori) e psicologici, superare i postumi di una malattia. Aumentare intensità di percezione e di lettura della realtà e delle relazioni umane. Diminuire il livello di stress.
A CHI SI RIVOLGE:
come training riabilitativo, a chi ha difficoltà comunicative (isolamento, depressione, insicurezza), malattie degenerative, problemi psicologici; come attività, a chi vuole migliorare la propria produttività nella professione e la capacità di analizzare e gestire le situazioni lavorative.
COME:
questa attività tende a far sintonizzare i partecipanti con il momento (livework, lavoro in diretta) ad essere presenti in una situazione, che sarà in continuo aggiornamento, come le fasi della vita (da qui lifework, cioè lavoro delle vita).
Questo significa prima di tutto sintonizzarsi con le fasi della natura ma anche con la circostanza nella quale ci troviamo. Spesso l'emotività prende il sopravvento, inserisce valori sballati, il lifework serve a recuperare il reale valore delle cose, a individuare il nostro problema, quello che non va, quello che non funziona in noi (il nostro veleno), a vederlo e a lavorare su quello.
Il trauma può essere fisico (un tumore) o emotivo (un lutto, un avvenimento tragico); man mano che ci si sintonizza con la circostanza, si impara a "vedere" la realtà, a capire il motivo per cui facciamo certe cose. Questo avviene principalmente in sala: capire perché stiamo facendo una cosa in quel momento.
Lo stesso si può applicare nella quotidianità, nel lavoro, nella famiglia, nel traffico. A questa presa di realtà corrisponde quasi sempre un cambiamento dell'assetto fisico, posturale. E dell'atteggiamento psicologico.
COME SI RECUPERA IL CONTATTO CON LA REALTÀ?
Lavorando innanzitutto con la voce, usando un mezzo esterno, la musica, e infine con il movimento. La voce e la musica forniscono il contatto col momento. Si acquista una più intensa percezione e un'esatta dimensione del tempo. Stimolando una situazione nel presente si finisce col recuperare anche fatti e ricordi del passato (quello che nascondiamo nel nostro, personale, sgabuzzino), le cui esperienze positive o negative, possono essere utilizzate in modo diverso per l'oggi e per il futuro.
COSA SUCCEDE IN SALA:
spesso stimolati da musica, voce, movimento gli allievi tirano fuori il vero lato di se stessi, la loro autentica lateralità (destro, mancino) e riacquistano il senso del tempo, con semplici gesti come quello di rimettersi l'orologio, dopo averlo ignorato per anni, o di portarlo spontaneamente al polso destro o sinistro. Il tratto fondamentale della persona può essere positivo o negativo a seconda di come viene usato: in maniera attiva (sintonizzati con la circostanza) o passiva (dimensione avulsa del sognatore). Il lifework/livework punta a mantenere tutti noi continuamente sintonizzati sul momento per essere sempre lucidi, avere capacità decisionale, prospettiva, capire le situazioni e affrontarle, grazie al recupero del proprio passato, in modo diverso. Per ottenere questo, si deve sempre stare attivi.
In CONCLUSIONE: per star bene si deve lavorare sempre (a vita, lifework).
Wiebe Moeys (contenuti)
Silvia Paoli (redazione testo)
Lifework: il lavoro continua
In questo articolo, scritto da Viviana Guadalupi, Wiebe Moeys ci indica gli obiettivi di questi mesi di lavoro insieme:
- Saper "risolversi" in qualsiasi situazione.
- Riuscire a non perdersi nel tempo della riflessione, pesante ed improduttivo, ma saperlo attraversare mediante il RAGIONAMENTO.
- Riuscire ad esercitare la nostra professione al di là di ogni imprevisto.
Sono questi gli obiettivi primari della nostra ricerca di questi mesi. Essa parte da se stessi e si pone la meta di affinare una vera e propria strategia che possa permettere di rimanere LOGICI e COERENTI anche in situazioni assai improbabili, lavorative e non.
Esistono alcuni elementi fondamentali che concorrono a maturare questo atteggiamento:
- assumere come punto di partenza la CIRCOSTANZA nella quale via via ci troviamo;
- assumere come stimoli l'INTERAZIONE con chi ci circonda, la VELOCITÀ d'azione, VOCE e MUSICA, le quali utilizzate in maniera sana potenziano le capacità di percezione;
- il CORAGGIO di intraprendere strade nuove, talvolta sconosciute.
Partire dalla "circostanza" significa basarsi sempre
su quanto abbiamo disponibile nel momento stesso in cui dobbiamo
agire. Mai lavorare in base a quello che si vorrebbe, ma in base
a momenti reali. Per questo motivo non possiamo permetterci di rimanere
sospesi nella riflessione. Essa è senza tempo, suscettibile
di facili contestazioni perché parte dalla sfera emozionale
dell'individuo. Riflettiamo quando "stacchiamo la spina",
quando siamo soli e stacchiamo la spina. Significa prima di tutto
chiusura. In secondo luogo riflettere significa tentare qualcosa
e, partire dal presupposto che le nostre azioni siano dei tentativi,
è come mettere in preventivo che possiamo non riuscire ad
ottenere quello per cui stiamo lavorando. È demotivante e
fortemente soggetto al fallimento. Saper trasmettere e dunque covare
una reale e forte motivazione resta il primo passo verso la direzione
di cui parliamo, e la migliore motivazione per chiunque è
sapersi utili, grandemente produttivi. Nell'esercizio del proprio
mestiere non si riesce quasi mai ad avere il tempo di indugiare
per pensare -riflettere -. Si perderebbe aderenza con l'aspetto
pratico del proprio lavoro che è l'elemento in base al quale
veniamo valutati, perché è l'elemento che ci presenta
e rappresenta.
Con tutto ciò, non crediamo che non si debba elaborare ed
interiorizzare quello che svolgiamo con il nostro lavoro, crediamo
solo che si debba farlo in chiave OPERATIVA. Intendiamo parlare
di RAGIONAMENTO (non di riflessione) che appartiene ad una sfera
dinamica, che accoglie continuamente stimoli dall'esterno - atteggiamento
d'apertura - ed evita il rischio di stagnare su se stessi. Ragionare
è essere già in movimento, è già provare,
sperimentare qualcosa. È riuscire a "vedere in tempo"
l'evoluzione di un momento. È sempre un momento di LUCIDITÀ.
La tentazione di sostare nella riflessione la corriamo quando ci
troviamo in un momento di difficoltà. Nella difficoltà
la riflessione appesantisce ulteriormente la nostra debolezza contingente.
Invece nella difficoltà è proprio il momento in cui
dobbiamo essere il più operativi possibile. Non fermarsi
a pensare ma LAVORARE quanto mai. In questo modo ci diamo la possibilità
effettiva di riscattarci dalla difficoltà, la possibilità
di capire qual era stato il nostro limite, una volta che lo abbiamo
già superato, cioè quando non può più
ferirci, quando ci risulta ormai innocuo. In questo modo ciò
che è stato un attimo prima un punto di debolezza diventerebbe
senza dubbio un punto di partenza e addirittura un elemento per
potenziarsi, perché avremmo in ripresa diretta il riscontro
positivo del nostro lavoro.
Ad esempio, ascoltare le critiche riguardo il proprio mestiere diventa
costruttivo solo se ci lavoriamo immediatamente. Vuol dire ascoltarle
attivamente ed evitare il rischio di subirle.
Per definire il concetto, sottolineiamo che quando "stimoliamo
una circostanza" vengono fuori le nostre memorie. Cioè
quando riusciamo a stimolare una situazione presente, vuol dire
che abbiamo fatto breccia inconsciamente nella nostra storia passata
ed utilizzando poi consciamente una sana elaborazione di essa, possiamo
intravedere prima un futuro e riuscire a gestire le situazioni nuove
perché siamo in anticipo su di esse.
La tentazione di indugiare in una riflessione fuorviante si riesce
ad evitare quando concediamo spazio a reazioni istintive piuttosto
che pensate e costruite. Le reazioni istintive sono le più
LOGICHE. Reagire d'istinto significa che non si è avuto il
tempo di riflettere su una virtuale necessità di adeguare
i propri atteggiamenti a tutta una serie di condizionamenti che
subiamo dalle infrastrutture socialmente riconosciute. Esse depistano
la reale lateralità di ognuno. Ad esempio sullo sviluppo
della nostra lateralità possono essere fuorvianti dei sistemi
talmente conclamati da non suscitare riserve e per questo da essere
accettati automaticamente. Sono semplici dati ma estremamente indicativi.
Nella maggior parte dei Paesi si conduce l'auto nella carreggiata
di destra: un mancino si deve adeguare senza troppe elaborazioni;
la posizione delle corde sul manico della chitarra sono pensate
per i destri, per non parlare dei vari corsi che intendono insegnare
a suonare lo strumento: un mancino o inverte l'ordine delle corde
ed impugna il manico con l'altra mano oppure dovrà fare uno
studio allucinante per ricavare le nozioni per sé. Anche
solo e semplicemente il dato che alcuni coltelli hanno il seghetto
solo su un lato della lama che ovviamente è quello opportuno
per un destro. Può succedere che, in alcuni casi, questi
elementi tutti assieme possano risultare determinanti di una lateralità
non naturale. Nella VELOCITÀ salta fuori la lateralità
più logica e di essa ci serviamo per condurre un percorso
il più coerente possibile alla nostra naturalezza.
Oltre la velocità, l'altro strumento che abbiamo a disposizione
per stimolare risposte istintive sono le persone da cui siamo circondati,
che convivono o interagiscono con noi su vari livelli, che siano
a noi coordinate, o che fungano da oppositori. Se riuscissimo a
"vederlo sempre in tempo", un oppositore potrebbe solo
essere un grande aiuto per uscire dagli schemi fissi individuali,
per imparare a gestire e rispondere adeguatamente in situazioni
improvvise ed inaspettate, per non rischiare di cadere nella trappola
della metodicità e dell'abitudine. Accettare continuamente
il confronto con gli altri nel senso di oppositori piuttosto che
di complici, accettare la loro intromissione nella propria dimensione
personale e professionale significa essere disposti a rompere gli
equilibri in continuazione ed in continuazione saperseli ricostruire.
In questo senso parliamo di equilibri dinamici, in perpetua evoluzione,
molto differenti da quegli equilibri statici che finiscono con l'indurre
l'individuo a sedersi su se stesso e sulle proprie capacità,
senza concedersi l'occasione di spingersi oltre. La capacità
di essere empatici è un ovvio sintomo di apertura. Coloro
che ci circondano se "utilizzati" come spinta al di fuori
da noi, dal nostro piccolo spazio vitale, concorrono non solo a
far conquistare un equilibrio nell'attività quotidiana, come
si è detto, ma anche e soprattutto un equilibrio interiore,
costruito su certezze e concretezza ponderabili e tangibili.
Concludiamo con la propensione alla sperimentazione, intesa non
necessariamente con un valore estremistico. Il CORAGGIO che è
necessario per INTRAPRENDERE (e non tentare) nuove direzioni e combinazioni,
non sopraggiunge inspiegabilmente ed improvvisamente. È una
forza che si acquisisce con l'esperienza, con la consapevolezza
ferrata del proprio lavoro-mestiere. Tanto più che dev'essere
gestita con entusiasmo. Se venisse a mancare questa ferratezza professionale
di fondo più che entusiasmo, si sconfinerebbe nell'euforia,
che è fuori portata, conseguenza di un approccio che non
è coerente con la "circostanza", dunque difficile
da gestire.
A questo proposito approfittiamo per precisare che il nostro intento
non è dettare una serie di regole da seguire per giungere
ad uno scopo ben determinato. Sarebbe in controtendenza all'affermata
convinzione dell'importanza di sperimentare. Stiamo "praticando"!
tanto più che fornire una direzione obbligata è fonte
di infinite tentazioni di uscire, forse anche a giusta ragione,
fuori dalle righe.
Wiebe Moeys (contenuti)
Viviana Guadalupi (scrittura articolo)
A tavola con i bisnonni
Abbiamo dedicato la fase autunnale di quest'anno lavorativo alla ricerca, o meglio alla "riappropriazione" della base dinamica di ognuno, intendendo per essa la capacità ricettiva e reattiva nei confronti di quanto accade in un dato, immediato momento. Una capacità di risposta libera il più possibile da idee e concetti precostituiti, imputabili persino alla generazione dei nostri bisnonni, istintiva e legata per lo più alla situazione contingente. Sappiamo perfettamente che liberarsi dai condizionamenti indotti sia dalla nostra storia di relazioni personale che da quella di coloro che vivono accanto a noi e che hanno vissuto prima di noi, è un'aspirazione utopistica. Tanto più che la nostra energia di reazione può essere convogliata, in generale, verso due direzioni possibili:
- quella del ragionamento istantaneo, attinente al tempo presente e contemporaneo all'azione stessa, una direzione appunto dinamica, concreta e rispondente ad una percezione "corretta" della situazione reale;
- quella dell'immaginazione, attinente ad un tempo sospeso, scollegato dalle contingenze reali. Essa entra in gioco per un emotivo meccanismo di difesa, quando ci troviamo in un momento di difficoltà. A corto di certezze di riferimento, ne costruiamo altre di sana pianta, facendo appello a vecchie ereditate reminescenze, convinzioni che derivano da segni del passato che si perpetuano senza riuscire necessariamente a riconoscerli come tali.
Esistono però delle strategie grazie alle quali possiamo imparare a gestire questi condizionamenti e indirizzarci, quasi sbilanciarci, verso una sana istintualità ed intuitività d'approccio.
Potrebbe a questo proposito risultare chiarificatore un esempio pratico nell'ambito dell'insegnamento della danza. Cominciare ad insegnare una piroetta, ad esempio, ha sempre significato spiegarne la tecnica dalla preparazione, cioè il punto di partenza, alla dinamica del fondamentale stesso, cioè il giro. Si devono dunque fornire numerosissime, dettagliate indicazioni sul modo di stare in asse e mantenerlo durante il movimento, sui tempi della testa, delle braccia e delle gambe differenti fra loro, sulla fluidità di tutto il movimento perché possa risultare dinamico per il giro, su come trovare un equilibrio dinamico e non statico, come fendere l'aria, gestire finanche la respirazione e mille altri accorgimenti complicati da spiegare verbalmente. Essi necessitano dell'applicazione pratica per essere interiorizzati, quindi automatizzati, e utilizzati per riprodurre il fondamentale della piroetta in maniera corretta. Spesso succede che, ubriachi di informazioni vaghe fino all'applicazione vera e propria, chi si cimenta si blocca a pensare all'impostazione e non parte per eseguire l'esercizio. Ci vuole moltissimo tempo perché la tecnica venga automatizzata e tanto altro ancora per non perderla ogni qualvolta la si inserisca in un contesto coreografico diverso. Così, invece di partire dalla teoria, è preferibile partire dalla pratica. Senza spiegare alcunché, si stimolano i danzatori a proiettarsi nel movimento, quasi del tutto privi di qualsiasi condizionamento didattico. Succede che il corpo stesso, azionato dalla percezione del momento dinamico, risponda istintivamente raggiungendo il risultato molto più velocemente rispetto a coloro che erano stati indottrinati prima di cimentarsi.
Ampliando il campo e sconfinando da quello propriamente lavorativo che ci riguarda, rimane il pericolo della capacità immaginifica che appartiene ad ognuno di noi, ed è questa che si deve scalzare con il lavoro dinamico. La capacità cioè di creare immagini fasulle ogni qualvolta non abbiamo a disposizione dei prototipi, delle certezze di riferimento. Una capacità che distorce la realtà e deriva da idee preconcette e preconfezionate dai nostri avi. Queste ultime a loro volta sono figlie della tendenza a creare un metodo per tutto, in base al quale decifrare eventi e accadimenti. Quando vengono meno quelle che costituiscono vere e proprie chiavi di interpretazione del nostro vissuto, scelto o imposto, ricorriamo a uno schema riconosciuto come giusto (metodogizziamo) oppure costruiamo certezze fittizie in sostituzione di quelle che sono saltate. È un processo naturale, comprensibile e giustificabile perché davanti ad una situazione di difficoltà, il nostro cervello interviene assumendosi automaticamente il "compito di proteggerci" dalle brutture che potremmo essere costretti a subire o solo a constatare, dai traumi, dalle delusioni, da ciò che sconvolge e sovverte i canoni ai quali abitualmente ci riferiamo. Il cervello cerca sempre una certezza. Per fronteggiare tutto questo spesso arriviamo a costruirci delle verità immaginifiche, spacciandole per certezze, attingendo ai presupposti della nostra storia personale. Queste compensazioni attivate dal cervello le paghiamo con la percezione distorta del momento dinamico presente sino a manifestare vere e proprie malattie.
Avendo già ampiamente argomentato alcuni aspetti di questo
tema in un numero precedente del Lifework, ci soffermeremo ora su
quei condizionamenti che risalgono alle generazioni passate, in
questo caso alla generazione dei nostri bisnonni, che facilmente
ha lasciato strascichi nella nostra memoria biologica.
È la memoria biologica il nastro su cui vengono registrati
i segni, in particolare le ferite emotive di coloro che ci hanno
preceduto. Per una sorta di imprescindibile processo d'accumulazione,
esse giungono imperterrite dai nostri antenati a condizionare i
comportamenti, finanche definire la personalità dell'ultima
generazione. Finché si tratta di accadimenti piacevoli, ovviamente
il condizionamento non costituisce un problema, anzi
Sono
i traumi ad interagire in maniera fuorviante con le nostre cognizioni
e, per ironia della sorte, pare che questo "registratore"
giuntoci in dotazione dalla natura e che è la nostra memoria
biologica, imprima maggiormente giust'appunto i retaggi sofferti.
Dunque la tendenza a concepire un metodo per codificare ogni situazione
l'abbiamo ereditata proprio dai nonni dell'Ottocento. A voler addurre
degli esempi, le abitudini e le mode più quotidiane dell'epoca
erano manifesto di un senso percettivo estremamente limitato. Si
viaggiava e si percorreva qualsiasi spazio all'aperto, ampio rispetto
alle locations scure delle case, restando stipati nelle carrozze,
aspettando passivamente d'arrivare a destinazione. I cappelli a
cilindro alti, l'uso appena introdotto di una sola lente per coloro
che avevano problemi alla vista, restringevano sensibilmente il
campo visivo con una conseguente diminuzione della percezione di
spazio e tempo e della prospettiva esatta di quanto li circondava.
Non disponendo di una visione precisa del campo in cui agivano,
gli uomini del XIX secolo, diventarono inevitabilmente metodici,
così da poter essere certi delle proprie mosse. Particolari
questi che testimoniano un'impostazione di pensiero riscontrabile
anche su scala maggiore, basterebbe considerare specificatamente
il periodo storico al quale ci stiamo riferendo ed ovviamente all'assetto
politico-sociale che lo caratterizzava. Solo per semplificare, visto
che non è questa la sede per approfondire un discorso più
accademico a riguardo: immaginate una tavolata lunghissima, i nostri
vicini avi seduti nei punti nevralgici. Ci racconterebbero delle
prime fabbriche e delle prime parole di diritto dei lavoratori,
delle campagne sfollate e delle nuove leggi elettorali, ci racconterebbero
della nuova idea di nazione e della fatica di comprenderla, dei
primi poveri che sono riusciti ad ascendere allo stato di borghesi
e della Grande Guerra. Un momento storico di grande sovversione,
frutto di imponderabili impeti rivoluzionari, indecifrabile e dunque
oscuro per molti versi, per il quale la necessità urgente
di "mettere ordine" ed il timore di fronte alla gigantesca
sagoma dell'incertezza del cambiamento si sono risolti in alcuni
casi con la compilazione di metodologie per definire e controllare
i vari fenomeni. Tutto ciò vale sia in ambito sociale, quindi
un ambito molto vasto, che in ambito personale, cioè riferibile
ad una microrealtà. È il primo passo per rinunciare
alla libertà individuale di giudizio che di fatto guida le
scelte di ognuno. Questo processo di autoregolamentazione è
riuscito a scavalcare il tempo e a giungere nel cuore della generazione
contemporanea, riscontrabile quando alle situazioni non classificabili,
che presentano la tentazione di più direzioni percorribili,
si pretende di trovare risposta solo attraverso un metodo preconfezionato,
ripescato per l'occasione e tempestivamente adottato. Le famigerate
"buone maniere" derivano dallo stesso motore, oltre che
dalla preoccupazione per il giudizio altrui. La tranquillità
che nasce invece dal riuscire ad incasellare ciò che succede
e definirlo in uno schema prefabbricato seppure falso, fuorviante
e acritico sembra impagabile, anche a costo di sacrificare risposte
logiche, coscienti, istintive, vere. Se una data realtà risulta
particolarmente scomoda, succede che una serie di filtri difensivi,
dopo averla timbrata a priori, la releghi automaticamente in una
parte oscura dove non può essere vista, né affrontata.
Non solo è la parte che diventa il condizionamento più
pesante ma è soprattutto quella che ereditiamo dalla memoria
biologica di chi ci ha preceduto e che, invisibile, è la
più pericolosa. Tutto ciò che non riusciamo a vedere
è il rischio più temibile, poiché non conoscendone
la natura, l'origine, la motivazione scatenante, quando si rivela
non possiamo gestirlo.
Stimolare la percezione dinamica è senz'altro un'ottima strategia per cominciare a stabilire una certa confidenza e quindi a scardinare la propria dimensione occulta. Intendiamo scatenare una risposta istintiva, ancorata nell'immediatezza del momento e nella concretezza di quello di cui si dispone. Per questo motivo tendiamo a diffidare di chi si cimenta in progetti ideali, impalpabili, dei quali non riesce a vedersi una definizione in termini concreti. Sono quei progetti che durano lo spazio di una notte appena. I piccoli importanti passi segnano traguardi tangibili e gratificanti scanditi nel tempo, che sono l'uno il presupposto di quello successivo per comporre magari torri elevatissime. In questo modo anche i fantasmi cattivi di condizionamenti "fisiologici" possono essere gestiti bene e all'occorrenza giocare persino a favore di una reazione autentica e genuina. La memoria biologica è funzione della capacità di utilizzazione dei ricordi, che ci permette di anticipare le soluzioni migliori di pensiero e di comportamento, basta non lasciarsi fagocitare dall'angoscia generata da certi influssi. La memoria biologica è di natura selettiva. Di conseguenza se l'elaborazione mnemonica è libera da pesanti condizionamenti culturali e coercitivi, essa è in grado di scegliere l'informazione ritenuta fisiologicamente più utile allo sviluppo creativo-evolutivo. Istinto e intuizione nel momento dinamico presente si comportano quali specifici selettori dinamici dell'evocazione e dell'integrazione dei processi mnemonici. Pertanto può essere sufficiente stimolare più frequentemente tali sistemi innati di selezione dell'informazione per decifrare velocemente e adeguatamente le situazioni contingenti. Dopo tutto da sempre, la storia dell'uomo, della sua evoluzione intellettiva è basata su un processo di sviluppo di forme mentali di adattamento creativo all'ambiente naturale e sociale. Quello che succede non è semplicisticamente un riciclo o una ricombinazione di elementi storicamente definiti in precedenza. Tale evoluzione è frutto di un'azione dinamica dove il nuovo si crea e si arricchisce ed il vecchio si depotenzia e si degrada.
Wiebe Moeys (contenuti)
Viviana Guadalupi (scrittura articolo)
TRAINING RIABILITATIVO LIFEWORK
lezioni di gruppo o individuali su appuntamento tenute da Wiebe Moeys in collaborazione con il "Centro di Medicina per l'Uomo" della Dott.ssa Miriam Malfatti - C.so Magenta, 27 - 20123 MILANO
DANZA TERAPIA e TRAINING RIABILITATIVO LIFEWORK con WIEBE MOEYS
Per informazioni: Cell. 340-4739602 - E-mail: contact@wiebemoeys.com